A Bagnoli non si scherza con il fuoco

Ogni lavoratore che iniziava il proprio cammino professionale all’italsider di Bagnoli riceveva lo stesso ammonimento da parte del collega veterano: “non si scherza con il fuoco”. Il fuoco della cokeria, per circa novanta anni ha regnato sul quartiere flegreo, alimentando sogni e speranze di intere generazioni di napoletani che vedevano nel grande colosso del ferro l’unica via di fuga da un presente amaro e da un futuro incerto. Operai innamorati di Bagnoli perché come un piroscafo li aveva trasportati dalla Napoli del contrabbando e della lotta alla sopravvivenza, alla Napoli della solidarietà e della coscienza di classe. Era tangibile la soddisfazione di chi lavorava ad alte temperature, con indosso tute pregne di amianto, poiché la ricerca della legalità e l’etica del lavoro avevano sovvertito l’ordine naturale delle cose.Agli inizi degli anni 70  i primi cali di produzione lasciavano presagire un futuro difficile per lo stabilimento, tuttavia l’unica ancora di salvezza per l’intera città rimaneva Bagnoli. Fu così che le assunzioni non si fermarono, entrarono a far parte della famiglia centinaia di persone iscritte alle liste dei disoccupati organizzati, imposte dalla politica. Assunzioni che non contribuirono a migliorare né il clima all’interno degli impianti né la situazione economica dello stabilimento. Alla fine degli anni 70 si registrava una passività di oltre cento miliardi di lire. Ciò nonostante, nello stupore generale, si decise di ristrutturare Bagnoli. Per ottemperare a ciò, vennero spesi mille miliardi di lire, nessuno riuscì a capire la reale motivazione celata dietro lo sperpero di tale cifra, dubbio che riaffiorò quando dopo pochi anni vennero venduti a basso prezzo gli impianti appena ristrutturati. Il risultato fu che alla fine degli anni 80 il management dichiarò che grazie agli interessi con le banche, dovuti alla ristrutturazione e alla crisi del ferro, non vi era altra strada che la chiusura dello stabilimento. Forse fu un caso che nel frattempo grandi industrie come Eni ed Iri misero le mani su Bagnoli, presentando un piano di riqualificazione che prevedeva la costruzione di un porto turistico, alberghi, zone verdi, lidi, strutture sportive. Il 1992 fu l’anno di chiusura ufficiale dello stabilimento. La dismissione degli impianti avverrà ad opera del CIPE per poi passare nelle mani della società Bagnoli s.p.a. ed infine alla società Bagnoli futura. Imprese che hanno usufruito di fondi pubblici per la riqualificazione del territorio ma che non hanno nemmeno mai completato la bonifica. Il risultato è che dopo venticinque anni, quei terreni sono ancora colmi di eternit e metalli pesanti,  le persone continuano ad ammalarsi di tumore. Un progetto, rivoluzionario per l’Italia e per la città di Napoli, trasformatosi nell’ennesimo sperpero di fondi pubblici. Ciò che sta accadendo negli ultimi mesi è fatto noto, un giorno leggiamo di una svolta, il giorno dopo puntualmente arriva la smentita, un giorno leggiamo di un accordo tra governo, regione e comune, il giorno dopo di nuovo il buio.
Sui terreni dell’ex italsider sono lontani gli anni in cui si faceva attenzione al fuoco, anni in cui la coscienza di classe era il trait d’union del quartiere operaio, anni in cui le persone si trasformavano in popolo e i talenti individuali erano carburante per lo sviluppo della collettività. Sono troppi anni invece che si continua a giocare col fuoco, un rogo effimero, il fuoco della corruzione e dell’illegalità, così mentre il fuoco della speranza si spegne, resta solo tanto, tanto fumo. bagnoli

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